[toggle title=”Emanuela Filice” load=”show”]Contributor di Amiche di Smalto[/toggle]
Quando si chiude una porta (di scuola) ma si apre un portone (del centro estivo)
Dunque ci sono periodi dell’anno in cui il motto “prima di tutto sono una donna”, lascia spazio – con una velocità disarmante, pari solo alla frequenza con cui Clio make-up sforna i suoi tutorial su YouTube – a quello più rassegnato che risponde alla eco di “prima di essere moglie, ex moglie, fidanzata, compagna tradita, single per scelta, lavoratrice donna, esperta di escapologica da qualsiasi tipo di rapporto che non sia quello con l’hair stylist di fiducia, che resiste agli tsunami della vita come la macchia di amaro del capo sul top di seta bianco, sono mamma!… di figli che hanno finito le scuole e devono frequentare un centro estivo.
Detta così, tutta, d’un fiato, è una condizione che potrebbe passare inosservata come l’edizione di “Domenica in” presentata da Lorena Bianchetti, ma se associata ad una riflessione un po’ più profonda, assume quel connotato di terrore e sgomento che di solito hanno i ragazzi della città di Derry davanti al clown Pennywise.
La fine delle scuole e l’inizio del centro estivo
C’è da dire anche che la fine delle scuole e l’inizio del centro estivo è riconosciuta in un rapporto di causa-effetto già ai tempi del corso preparto e, quindi, non dovrebbe coglierci impreparate, come non ci hanno colte impreparate, grazie alla conoscenza linguistica usata nei bassifondi di Caracas, le doglie in fase espulsiva, per dire.
Eppure, la vita ci sorprende sempre e ogni fine anno scolastico – come ogni nascituro – porta con sé stupore, incertezza, timore, lacrime, nomi, città, cose, lettera o testamento.
Arrivare indenni a questo momento, invero, necessita di una lunga fase preparatoria che coincide solitamente con l’inizio delle scuole e attraversa silente i mesi e le stagioni, in un reciproco e rispettoso silenzio, tradito solo dagli sguardi complici di noi genitori che si incrociano con benevolenza ogni volta che qualcuno distrattamente pronuncia le seguenti parole, anche in ordine casuale e sparso, “giugno, vacanze, mare, morte”.
Tuttavia, la scelta diventa inevitabile quando iniziano a essere distribuiti in ogni luogo – anche nella velina dei vestiti ritirati in tintoria – i primi volantini che promuovono i centri estivi attivi in quella circoscrizione.
Solitamente io mi approccio in questi termini: prima li ignoro, poi ci faccio qualche aeroplanino o li uso come involucro di emergenza per le chewingum – proprio come faccio con gli avvisi di cortesia dell’Agenzia delle Entrate – per poi cedere, ma solo alla fine, alla durezza della realtà. Ovvero alla consapevolezza che io non sono “nonni munita” e che le mie figlie forse ancora non sono in età da poter fare qualche esperienza lavorativa come bariste o pizzettare a Londra.
Così i volantini propagandistici vengono esposti trionfanti in cucina al posto della “Preghiera per la famiglia” – messa lì da mia figlia il giorno di Natale e, lo ammetto, mai considerata – per essere esaminati dalla sottoscritta mentre preparo la cena e sorseggio del vino ghiacciato per dimenticare.
Le offerte sono innumerevoli, tutte valide e interessanti. Si va dal centro estiva in lingua inglese, con pranzo incluso e attività ludico-ricreative non meglio identificate (ma poco importa, il focus è l’inglese, quindi, anche se dovessero fare per 8 ore gli scooby doo, basta che li intreccino in lingua inglese), a quello che organizza corsi di baby cucina alternati a baby teatro o baby trucco e baby giochi nella baby piscina attrezzata.
Ci sono poi centri con attività che prevedono i primi approcci dilettantistici a sport quali tiro con l’arco, cricket, caccia alla volpe e corsa coi sacchi, spesso ospitati in circoli sportivi che garantiscono ai figli dei soci e agli amici dei figli dei soci – per la modica cifra pari a un quarto della quota di iscrizione annuale come socio – qualche ora di sana attività all’aria aperta, pranzo incluso eh!
La scelta del centro estivo

Personalmente, esclusi i centri di smistamento del carbone e la sede di forza nuova, andrebbe bene qualsiasi organizzazione capace di arginare l’emergenza “fine delle scuole”, anche lasciarle chiuse a casa affidate al destino, per dire. Ma poi alla fine cedo al centro estivo, non fosse altro per non rischiare di sentirmi ripetete la stessa frase ogni anno da tutti, anche dal fruttatolo sotto casa, che suona più o meno così “poverine, e che fanno chiuse a casa tutto il giorno. Poi si annoiano, no?!?!?!” – “Certo!” – rispondo io, “non sia mai!”.
Piuttosto la ricrescita a vita, ma non sia mai detto che queste creature restino a casa a giocare a vegeto sul divano tutto il giorno, a trascinarsi in pigiama fino alle otto di sera senza mai entrare in una doccia, a mangiare schifezze davanti ai film anni 80 trasmessi il pomeriggio, ubriacandosi di pubblicità e inconsapevoli che Massimo Ciavarro ormai ha quasi 70 anni!
Voglio dire, dopo un anno di scuola full day, attività pomeridiane come se non ci fosse un domani, eccesso di compiti a casa, che ho trascorso l’inverno pregando io ogni dio di ogni religione vero o presunto che le maestre avessero pietà di mia figlia – e quindi di me – almeno nel weekend, per poi ritrovarmi a studiare gli affluenti e capire finalmente cosa è un estuario.
Affrontare con coraggio catechismo, gite, scioperi di ogni tipo nei quali mi sono imbattuta mantenendo sempre un profilo alto, senza mai cedere a facili anatemi avverso lo stato di diritto con lo sguardo aperto sul futuro, incoraggiando le bambine a non mollare mai – un po’ come faceva all’angolo del ring Mickey con Rocky. Inserire sveglie mattutine con annesse minacce tradotte in privazioni di ogni sorta, saggi, presaggi e cene di classe….
Ebbene mi chiedo, perché mai dovrebbero restare chiuse in casa a non fare un’emerita cippa lippa, quando hanno la possibilità – pagando solo 100 euro a settimana – di prorogare per altri due mesi la sveglia alle 7 del mattino e con essa ridurre ai minimi termini il mio già precario equilibrio mentale, per trascorrere un’intera giornata fuori casa, affidati ad adolescenti brufolosi con sguardo semi cosciente ai quali, in un altro momento della vita, non affiderei nemmeno la pianta grassa del balcone della cucina e ai quali invece affido i miei figli ringraziando i loro genitori di averli messi al mondo in un atto irrefrenabile di attrazione reciproca, per poi tornare a riprenderli e trovarli stanchi – che nemmeno nelle piantagioni di cotone si riducevano così – tutti sudati e puzzolenti e spesso con un vocabolario ampliato e arricchito di termini e inflessioni che potrebbero passare tranquillamente per nativi di Corviale?!
Proprio per non disattendere questo sillogismo logico, quest’anno ho scelto per le mie bambine, ad integrazione della loro attività agonistica come provette étoile, un centro estivo di tennis, piscina, yoga, karate, feste del gelato intervallate da anguria party, trucco, parrucco e buono da spendere negli store Kiko di tutta la penisola. Il tutto alla presenza dei capoanimatori Checco e Piggio, rassicuranti quanto Carla Gozzi e Enzo Miccio durante una puntata di “Ma come ti vesti?!”, cosi tra qualche anno quando andranno dallo psicologo, quanto meno escluderò la diretta componente “senso di colpa per mancata frequentazione di centro estivo fico”.
Eppure, se mi fermo a riflettere un attimo, noi non avevamo affatto bisogno di tutto questo. Forse ci annoiavamo pure non lo escludo, ma non lo sapevamo. Eravamo troppo impegnati a gioire per la fine delle scuole, a svegliarci con l’odore della cucina già in fermento, alle ore che trascorrevano lente e indisturbate da impegni o appuntamenti, facendo finta di leggere un libro.

Così succedeva anche a me che trascorrevo le mie vacanze in campagna con mia nonna, prima di godermi il mare ad agosto. In una realtà parallela che era una casa immersa in un bosco di castagni, dove accadevano cose dal sapore fiabesco, irripetibili, inenarrabili.
Dove tutto mi pareva possibile e sicuro.
La paura era relegata fuori dal cancello intarsiato di ferro battuto e la libertà era racchiusa in una casa costruita su un albero di ciliegio. Dove l’annaffiamento a girandola soddisfaceva completamente il nostro bisogno di frescura e il pomodoro sul pane con olio e sale, rappresentava il pasto del guerriero.
I primi atti di ribellione erano rinchiudere le farfalle nere a puntini bianchi – notoriamente lente e fesse – in barattoli di vero aspettando l’accoppiamento e se ci scappava il morto si improvvisava un degno funerale con tanto di sepoltura in qualche fessura del tronco del pino che campeggiava al centro del giardino e che a Natale si travestiva da abete decorato.
Ho imparato a riconoscere gli orari della giornata, seguendo il canto degli uccelli alternato a quello dei grilli e delle cicale, e restavo chiusa in casa nelle ore più calde a guardare i film di Peppone e Don Camillo prima di appassionarmi alla saga di Perry Mason, per poi uscire nel tardo pomeriggio quando le vipere già non si potevano più incontrare e in ogni caso in frigo c’era l’antidoto. Quindi niente paura!
Già, non avevo paura e i miei genitori non avevano paura che io mi annoiassi.
Insomma, tutto questo per dire che, alla domanda che mi perseguita da sempre alla vigilia della fine di ogni anno scolastico sul futuro prossimo delle bambine – “poverine, e che fanno chiuse a casa tutto il giorno.
Poi si annoiano, no?!?!?!
Se potessi risponderei semplicemente “magari!”.