[toggle title=”Emanuela Filice” load=”show”]Contributor di Amiche di Smalto
“La miglior vendetta? La felicità. Non c’è niente che faccia più impazzire la gente che vederti felice” – Alda Merini[/toggle]
La fine della scuola, così come l’ultima volta di un momento importante, non si scorda mai…
È da un po’ che la prima dei miei innumerevoli figli (in alcuni periodi dell’anno, per lo più in coincidenza delle festività natalizie e delle ferie estive, penso siano effettivamente troppi) ripete a mo’ di mantra qualcosa che ha a che fare con “l’ultima volta che….”
A parte che alla sua età (11 suonati) mi sarei aspettata più una confessione del tipo “la prima volta che…”, per il resto davvero non se ne esce più.
“Mamma! Oggi è l’ultimo lunedì dell’ultima settimana di V elementare”
“Mamma!! Stasera è l’ultima volta che mangio l’uovo al tegamino bruciacchiato senza pane perché hai dimenticato di comprarlo, prima dell’ultimo lunedì dell’ultima settimana di V elementare”
“Mamma!!!! Ieri è stata l’ultima volta che ho lavato i capelli con il tuo balsamo all’olio di Argan che mi dici che non devo nemmeno guardare di sfuggita perché sennò accade qualcosa di brutto a me e al mio DS, prima di sabato. L’ultimo da studentessa di V elementare”.
Insomma una tiritera che nemmeno la curva sud l’ha tirata così a lungo per l’ultima partita di Totti, per dire.
Addirittura, fuggito il pericolo della catena Blue Whale, ho pensato potesse persino sperare di essere bocciata pur di non affrontare l’ultimo giorno di V elementare. Al solo pensiero, gocce di sudore hanno iniziato a inondare la mia fronte al pari delle cascate d’acqua del jungles rapids di Gardaland con aumento esponenziale della tachicardia che ricordo di aver subito solo quando, senza volere, ho resettato completamente il mio cellulare, perdendo TUTTO. Password di Privalia compresa.
Tuttavia, ad oggi posso essere ottimisticamente serena che la pre-adolescente desisterà dal suo progetto suicida perché non l’ho ancora sentita vagare per casa dicendo “questa è la mia ultima settimana da viva prima che mia madre scopra che mi hanno bocciata”.
Piccola premessa per dire che l’atmosfera che si respira a casa mia in questo periodo è trasversalmente nostalgica, fatalista e depressa come ben rappresentata dalla colonna sonora scelta dalla ragazzina durante la permanenza nelle sue stanze, intesa come momento catartico in cui riflettere sulla definitiva conclusione di un percorso della sua breve, eppur così impegnativa esistenza, tra cui spicca il brano di un amico sbarbatello di Maria de Filippi, tal “Polaroid” (baluardo della nostalgia in bianco e nero in effetti), che in ogni caso preferisco nettamente a “Che sarà” dei Ricchi e Poveri.
C’è da dire che alla mia sommessa obiezione circa la modalità estremamente drammatica con la quale stava affrontando questo forte ma naturale distacco – tanto che l’esemplare rapace casuario certamente sarebbe più comprensivo in caso di forzato abbandono del proprio nido – la mia cucciola ha prontamente risposto con quella frasetta che ogni volta che sento mi ispira un sonoro manrovescio che potrebbe farle ripercorrere i giorni della V elementare a ritroso fino alla prima volta che ha provato il gelato al fior di latte, che suona più o meno così “ma perché mamma, AI TUOI TEMPI non hai sofferto per la fine della scuola?!”.
Piccola bambina dal piumaggio ancora appena accennato, nel ricordarti che peggio di finire la V elementare c’è il non arrivare mai in prima media, ti vorrei dire un paio di cosine.
Intanto i miei tempi sono più lunghi di quelli che vivrai tu se non la smetti di usare la mia acqua micellare indistintamente per pelli secche e grasse e poi, mia cara, devi sapere una cosa, devi aver ben chiaro questo breve concetto che non intendo ripetere e che….. Ebbbene sì, ho sofferto da morire!
Ho sofferto così tanto che ancora sogno di soffrire e mi sveglio felice di trovare le raccomandate di Equitalia nella cassetta della posta ma di non soffrire più a quel modo.
Ricordo ogni fine. La fine dell’asilo, della V elementare, del catechismo, del liceo, della scuola tennis, delle vacanze studio in Inghilterra, la fine dell’estate, addirittura la fine di Non è la Rai.
Per ognuna di queste fine ho finito per stramazzare al suolo inerte, certa che non avrei avuto futuro se non una condanna al ricordo perpetuo del ciò che fù. Dante secondo me si è dimenticato di iscrivere i nostalgici in qualche girone, perché è infernale vivere di ciò che non è più. Ricordo addirittura che per ogni fine, cercavo di memorizzare più informazioni possibili.
Per esempio la temperatura esterna, il vestito della mia compagna di banco, il giorno e l’anno del calendario appeso al lato della lavagna, il profumo di ammoniaca e nicotina nei bagni già alle 9 del mattino.
Ho portato nei secoli con me qualche orpello in ricordo del momento. Gessetti e cancellini, gomme da masticare masticate, scontrino dell’ultimo panino al salame comprato per l’ultima ricreazione, occhiali da sole sottratti alla Prof di filosofia, fermo immagine di quello di italiano che si ravana le parti intime o si scaccola il naso, un sasso raccolto all’uscita di scuola e che avrei usato come corpo contundente negli anni avvenire.
Per tutti lo sguardo dei miei occasionali compagni di avventura certa che, malgrado i giuramenti assoluti – che quello di Ippocrate sembra una cantilena per chi deve iniziare la conta a rimpiattino – sapevo che non avrei più rivisto. O almeno che avrei rivisto meno. O comunque avrei rivisto ormai cambiato.
Per ognuno di questi ricordi cercavo di addestrare la mia mente, sperando di trattenerlo lì il più possibile, cercando e trovando dei punti fermi per ancorarlo alla mia memoria, proprio quel ricordo da ripescare per trovare conferma nel futuro. Un po’ come si cerca il palo inchiodato a terra da tenere d’occhio per scoprire se è il proprio treno a partire o il convoglio parallelo.
Così sono passati gli anni e i diplomi.
Ma il passaggio dalla V elementare alla prima media resta il passaggio più delicato. Ricordo il sollievo per la fine di quegli anni massacranti, in cui una maestra aveva scambiato le mie difficoltà di stare a passo con il resto della classe in un male da punire.
Oggi si interpellano i genitori anche quando il bambino va a scuola con due calzini spaiati, diagnosticando ben che vada, qualche disturbo di apprendimento o SDA.
Io invece ho trascorso 5 anni di scuola elementare da sola seduta ad un banco di fronte alla cattedra dove campeggiava una donna brutta e cattiva – che quando ho visto per la prima volta Donatella Versace mi è parsa bella e angelica – con l’unica colpa di avere difficoltà a fare i calcoli, a memorizzare le tabelline, a ripetere concetti, a scrivere temi.
Ero anticipataria di quasi due anni.
Così, per sostenermi nel mio cammino, la maestra pensò bene di applicare su di me quel protocollo punitivo, poi permutato dallo squadrone eliportato carabinieri cacciatori “Calabria” in sede di addestramento estremo, sortendo, manco a dirlo, un pessimo risultato del quale, tuttavia, venivo additata come sola e unica responsabile.
La mia debacle era solo e soltanto a me ascrivibile e, pertanto, dovevo essere punita.
Stranamente i miei genitori non potevano venire in mio soccorso perché appartenevano a quello stravagante gruppo di aborigeni che perpetrava rituali a favore dei coleotteri, delle farfalle con un’ala sola e degli insegnanti, che avevano ragione così a prescindere, anche solo per simpatia. Ho arrancato fino alla fine e credo che l’ultima settimana di scuola elementare facessi scherzi telefonici per partecipare della mia ultima settimana di pre-vita tutto il continente.
Alle medie ho portato con me tanti problemi che lo sciamano dell’epoca non era riuscito a risolvere con il rito del sangue colato sul quaderno di matematica e ho dovuto combattere altri tre anni cercando di non essere annoverata tra gli ultimi della classe, ma solo tra quelli un po’ stupidi.
Fino a quando un giorno mia madre pensò bene di suggerire alla professoressa di matematica – sua cara amica – che la soluzione migliore per me fosse quella di ripetere l’anno.
Io ero vicino a loro e non avevo il coraggio di alzare lo sguardo per non tradire la delusione che traspariva a quelle parole, la delusione per averla delusa.
Invece, e contro ogni aspettativa – un po’ come il Real Madrid che perde la finale di Champions League contro la Juve – non ho ripetuto l’anno perchè quella Professoressa (e la P maiuscola non è un caso), disse a mia madre che non doveva dire cazzate e che io ce l’avrei fatta.
E ce l’ho fatta.
Conclusi le medie a 12 anni. Al liceo ero la più paracula e anche una delle più brave e non mi sono mai drogata troppo.
Cara Antonellina prima, Eva poi e Valerio forse, sappiate che ogni volta che affronterete la fine di un percorso con emotività, vi prenderò per il culo solo perché spero che voi abbiate ereditato da me esclusivamente la mia bellezza pazzesca (?!) ma non il mio modo di approcciarmi alla vita e alle sue diverse fasi. Per cui ogni fine non ha mai rappresentato per me solo la conclusione di qualcosa, ma la definitiva perdita di quella me in quel preciso spazio tempo che mai tornerà, e con essa le persone che con me hanno diviso e condiviso quella particella virtuale.
Infine, per rispondere alla tua domanda iniziale, cara cucciola di avvoltoio, AI MIEI TEMPI sì, ho sofferto molto la fine della scuola, tanto che gli anni seguenti mi avrebbero vista aggirarmi tra psicoterapeuti e assunti tali. Ma in fin dei conti questo più che un punto di arrivo è stato un punto di partenza che mi ha visto certo più povera (70 euri a seduta!) ma anche più matura e consapevole, quanto meno in una sicurezza.
Quella per cui se incontri casualmente al banco del pesce del mercato sotto casa la tua maestra delle elementari, non per forza la devi salutare con deferenza e con fare garbato, ma puoi anche mandarla sonoramente a cagare insieme a tutta la sua progenie, nei secoli dei secoli. Amen