
Contributor di Amiche di Smalto
La famiglia raccontata dalle Serie Tv: tutto può succedere
“Alla fine si sono sposati. Un po’ incoerente visto che avevano deciso di lasciarsi, non credi?” – No, non è una frase del saggio Yoda, non è tratta da “le più belle frasi di Osho” né è estrapolata da “conosci te stesso” del Dalai Lama, ma è la chiosa di una delle mie bambine davanti al finale ultramegagalattico di “Tutto può succedere seconda stagione”. Ma andiamo per gradi.
Con l’inizio delle scuole è iniziata anche la nuova stagione televisiva e i palinsesti anche quest’anno punteranno su alcune programmazioni dedicate alle famiglie. La stagione “autunno/inverno” si sà è lunga e problematica, non solo per la settimana della moda e delle tendenze più hot (come i sandali con i calzini da indossare d’inverno), della profilassi per il trattamento e la prevenzione della pediculosi, ma anche l’intrattenimento serale e ci si destreggia con difficoltà tra i programmi in prima serata, valutando la loro più o meno accessibilità ai bambini.
Personalmente, proprio per fuggire questo incastro diabolico tra programmi “pre cena/cena/post cena”, tendo a trovare un motivo valido o anche solo verosimile o futuristico per mettere in punizione le mie creature nell’arco temporale che va dalle 20,00 alle 21,15, orario massimo concesso prima di spegnere le luci e SPARIRE. Inizio, ad esempio, ad ispezionare i diari assicurandomi che abbiano fatto tutti i compiti, compresi quelli per le vacanze di Natale già i primi di novembre. Alla prima obbiezione, in punizione!
A quel punto, solitamente mi ritrovo – a seconda delle serate – con Federica Sciarelli o con gli altri suoi compari che si occupano di quel tipo di sparizioni cui tutti noi possiamo ambire. Quelle di alcuni parenti, ad esempio. Oppure di coloro che scelgono l’allontanamento volontario o – nei casi più faraginosi – che si smolecolano per mano degli extra terrestri, perché, diciamocelo, non ci sarebbero altre spiegazioni altrimenti!
In quei momenti di estasi serale, quasi mai permetto alle mie bambine di varcare la soglia della loro stanza per raggiungermi in soggiorno, né loro sono così audaci da rischiare la vita senza una ragione seria, di quelle per cui Trump e Kim Jong-un sarebbero costretti a mettersi a tavolino e risolverla – loro malgrado – in modo diplomatico per dire, limitandosi invece a chiamarmi a voce alta nei casi di pericolo imminente e ad inviarmi dei pizzini in caso di blanda necessità.
Il loro cruccio su tutti, è che io dedichi le mie serate dietro a storie di sparizioni e rapimenti.
Così, una sera di giugno, mossa a commozione per la magnifiche pagelle portate a conclusione del santo anno scolastico, ho fatto l’errore di chiedere loro quale programma serale avrebbero voluto condividere sul MIO divano. Ero pronta ad accontentarle con Ulisse e a maggior ragione con Super Quark. Avrei fatto un’ eccezione anche per “Unti e Bisunti”, trattandosi pur sempre di un documentario sulla cultura dell’alimentazione e delle tradizioni enogastronomiche, ma mai e dico mai, avrei pensato di sentire reclamare a gran voce “Tutto può succedere seconda stagione”.
Ho evitato di precisare che “seconda stagione” non faceva parte del titolo, ma ero troppo impegnata a trovare un motivo per metterle in punizione e ho sorvolato.
E fu così che è iniziata la mia discesa negli abissi.
Ora, per i tanti che non hanno goduto della visione della fiction di cui sopra, è necessario premettere che parla di due poveretti di una certa età che vivono in un casale fichissimo alle porte della capitale e che, invece di godersi la pensione, stanno dietro a quattro figli tutti disperati, separati, risposati, abbandonati, problematizzati, psicopatici e depressi che non sapendo dove affogare i loro problemi, la sera spesso e volentieri tornano a cena da mamma e papà carichi dei loro pseudo fallimenti.
E fin qui davvero niente di male, trovandolo anzi attuale e neo realistico. Il punto che rende il programma a mio avviso al limite del consentito è che i due anziani capi stipide dei quattro scellerati, hanno sempre la tavola apparecchiata e la cucina in funzione a qualsiasi ora del giorno e della notte.
Ovviamente, per quanto possa condividere alcune delle rappresentazioni familiari offerte, mi sono interrogata se le mie bimbe fossero pronte ad essere spettatrici di storie familiari così complesse e sopra le righe. Poi ho pensato alla mia e al fatto che loro vivono con me e ho deciso che – previo piccola prefazione – avremmo visto insieme qualche puntata di “Tutto può succedere, seconda stagione”.
A tal fine avevo indottrinato la più grande affinché introducesse la sorella più piccola alla predetta visione. Mi ero premunita di aggettivare a gran voce i personaggi di dubbia etica e/o moralità, riconducendo alle loro vite alcune epiche peculiarità che nemmeno lo sceneggiatore si era mai lontanamente rappresentato, relegando invece nell’oblio della banalità quei contesti famigliari privi di quel friccichio che rende tutto più digeribile, senza nessuna deviazione dal cammino intrapreso alla scuola primaria e proseguito monotono fino al master di secondo livello, senza nemmeno un piccolissimo imprevisto, nemmeno un figlio illegittimo riapparso dal nulla, per dire.
Ero curiosa e allo stesso tempo intimorita per come avrebbe spiegato alla sorella i vari intrecci sentimentali dei protagonisti e allo stesso tempo ero incerta di come la sorella più piccola avrebbe accolto quelle dinamiche solo in parte surreali e più aderenti alla quotidianità, senza ricondurle a quelle che viveva lei, iniziando quel processo di parallelismi e comparazioni che fa tanto paura ai genitori bipolari come me.
E così, mentre erano impegnate nella ricostruzione di quanto fino a quel momento accaduto, io mi aggiravo nervosa tra la cucina e il mio soggiorno un po’ come la lupa del Campidoglio, inserendomi ogni due per tre nel tentativo di alleggerire quella descrizione che prevedeva da parte delle mie bambine una rivisitazione della loro realtà famigliare nella struttura di famiglia allargata, ma anche una visione armonica della famiglia naturale, questa forse un po’ meno afferente la realtà.
Ho capito che il mio tentativo era oltre che vano anche inutile quando davanti alla descrizione di famiglia che più temevo, fatta da padre madre e tre figli (nati tutti in costanza di matrimonio!!), la sorella ha guardato la più piccola e ha detto “e vabbe’ questa invece è una famiglia NORMALE”.
A quel punto ho sentito qualcosa di strano dentro di me, forse un ictus, che mi ha impedito di inserirmi con la veemenza che la frase avrebbe necessitato, per ribattere con un deciso “che poi diciamolo, chi è che sa davvero cos’è normale?!?!?!?”.
In quell’istante, invece, ho capito come deve sentirsi Scrat quando perde la ghianda convinto di averla messa in sicurezza. Avevo perso la battaglia contro il concetto di normalità che nonostante i miei innumerevoli tentativi – nemmeno troppo forzati, a dire il vero – continuava ad essere ricondotto ad una figura ancestrale di famiglia, così lontana da quella che proponevo, eppure così introiettata nei miei figli, nonostante tutto.
Ma a dire il vero, mentre io in solitudine affrontavo questo dilemma, le mie figlie andavano oltre e se ne stavano ringalluzzite a godersi i perigli cui erano esposti i fantastici quattro che, diciamolo, ai miei occhi apparivano – quanto a vita dissoluta – come dei pivelli alle prime armi, che la famiglia Cunningham al confronto incarnava perfettamente il concetto di nucleo compatto estremista attivista per il riconoscimento delle droghe leggere e dei diritti civili delle coppie pluriamorose, per dire.
È stato in quel momento che ho realizzato che, se pure la missione di questi programmi fosse stata quella di riabilitare la famiglia extra large a dispetto di quella tradizionale – superata come il “mercoledì al cinema a 5 euro”- ebbene, questo esperimento sociale avrebbe avuto un finale fallimentare, esattamente come la missione Apollo 13.
Certo, c’è da dire che il programma i sé, come molti altri che negli ultimi anni sono stati proposti e riproposti seguendo tutti lo stesso schema, pur se a mio avviso superato, sono specchio di un momento storico dove la famiglia subisce sistematici accomodi e rammendi, proprio come un vecchio jeans che non hai intenzione di buttare perché ci sei affezionato e allora, mentre tu decidi di riabilitarlo con semplici toppe nei punti critici, senza troppe pretese, è la società stessa che ci pensa a farlo tornare di moda, ancorché liso.
E così, che mi sono ritrovata insieme alle mie figlie a guardare – senza subire alcun imbarazzo – storie di matrimoni falliti, figli contesi, mogli tradite, padri che vorrebbero esercitare la loro potestà genitoriale e non possono perché ricattati dal gatto e la volpe, zii che intervengono come paceri manco fossero nel salotto di Barbara d’Urso e fidanzati della madre osannati dai figli di lei come Bono all’Olimpico.
A ciò si aggiunge l’ottimo carattere di questi figli per niente afflitti dall’appartenenza a questa paranza familiare, che anzi riescono a mantenere un temperamento che nemmeno se ti converti al buddismo dopo anni di meditazione nella posizione del loto ci riesci senza mai drogarti, guidare in stato di ebbrezza, ripetere l’anno scolastico un paio di volte, vendere i gioielli della prima comunione per comprare un biglietto del concerto di Fedez e tentare di uccidere qualcuno in un agguato sotto il portone con l’acido muriatico.
Dove i protagonisti si sono offesi, traditi, insultati, picchiati ma alla fine si ritrovano tutti insieme a brindare come se nulla fosse successo, in nome della famiglia.
Su tutti questi personaggi, campeggia la presenza dei nonni – altra figura mitologica presente in tutti questi film di forte denuncia sociale, esempio della vittoria radicale anni 70 – senza i quali i protagonisti non avrebbero nemmeno una Graziella bianca col porta oggetti posteriori per portare a scuola i figli, figuriamoci una casa di proprietà con pertinenze.
E invece, questi nonni sono fantastici, di età indefinita, ripercorrono la vita dei loro figli senza giudicarli mai, affrontando con loro gioie e dolori, prendendosi carico di tutti i nipoti dalla colazione allo spaghetto di mezzanotte. Pronti sempre ad adeguarsi alle mode e al momento, cambiando abitudini e modi di vivere con la stessa facilità con cui Arturo Brachetti passa dal frac al tutù.
Ed io me ne restavo lì, guardando quelle ragazzine appassionate, seguire vicende inverosimili dipinte all’acquarello per farle sembrare naturali e che, nonostante tutto, trasudavano di fiction.
Eppure alla loro età noi ci appassionavamo di Happy Days, di Tre nipoti e un maggiordomo, di Arnold, de La casa nella prateria….. Ma anche di Dallas, Quando si ama, Santa Barbara e Beautiful.
Voglio dire, mentre mi lasciavo trascinare dall’opportunità o meno per le mie figlie di assistere inermi a scorci familiari più o meno opinabili, dimenticavo che io alla loro età ero sollecitata da ben altri intrecci diabolici – che ancora all’epoca non sapevo mi avrebbero definitivamente segnato – e che trovano origine nel tradimento da parte di Ridge con Brook, consumato la notte prima del suo matrimonio con Caroline, tradimento andato in onda alle ore 14,00 dopo l’edizione regionale del tg3 e di cui i miei genitori non si preoccuparono affatto.
Altro che nonno Libero e affini. Lì i nonni erano Stephany e Sally Spectra, gli zii erano anche fratelli e figli e quella più sana aveva di incerto anche la madre.
Le seguivo, quelle storie, con distacco ma appassionatamente – binomio vincente quando si tratta di storie d’amore – senza credere davvero nell’esistenza di quel ceppo umano e comunque in attesa del trionfo della bontà e della verità, che veniva puntualmente disilluso, a scanso di equivoci, con il trionfo della realtà sulla fiction.
Non erano le soap dell’epoca occasione per accogliere costumi sociali e scelte personali.
Erano senza pretese, erano lì, inverosimili, leggere come bolle di sapone.
Tutto questo per dire che forse le serie TV proposte oggi – usate per sdoganare un concetto di famiglia fruibile ai più, alla luce della sua nuova impostazione senza troppi schemi e dogmi, senza più quell’antico triangolo mortifero padre-madre-figlio da superare a tutti i costi e senza rimpianti – arrivano velocemente e senza troppi sforzi, al risultato opposto, all’esaltazione della fiction sulla realtà, oltre ad essere una enorme rottura di cabasisi.
Ancora oggi mi sento nettamente più rappresentata dallo spirito competitivo di Sally Spectra e da quello vendicativo di Stephanie o di Suellen. Mi sento vicina a tutte quelle donne vittime di tradimenti subdoli che non si sono mai lasciate accarezzare dall’idea di diventare le migliori amiche delle nuove mogli del loro ex mariti per il bene dei figli, cogliendo anzi ogni occasione per iniettare veleno nelle più profonde viscere delle nemiche e comprendo moltissimo il moto di gelosia degli uomini traditi che non vedevi di certo seduti al tavolo con tutta la famiglia allargata, ma piuttosto li ritrovavi a meditar vendetta in qualche parcheggio sotterraneo.
Erano, tutto sommato, storie senza finto buonismo, non venivano immerlettate da moralismi che facevano da contrappeso alle storie raccontate. I protagonisti erano leali nelle loro scempiaggini, non volevano piacere per forza, né erano messi lì a propagandare messaggi con un sottotitolo diverso da quello che raccontavano. Storie di intrighi e tradimenti, cose che possono accadere anche nelle migliori famiglie senza pentimento, senza figure retoriche compassionevoli, senza aspirare all’assoluzione. Nude, crude, REALI.
“Alla fine si sono sposati. Un po’ incoerente visto che avevano deciso di lasciarsi, non credi?”Eh sì, molto poco coerente mia cara e, soprattutto, molto poco Beautiful. Diciamolo